L’organista
di Niori
(…)
L’organo della chiesa di Valle di Pompei,
il primo della contrada munito della cassa espressiva,
era oggetto d’ammirazione senza limiti.
Un cieco, abile al possibile, ne traeva effetti
tali ch’essi mandavano in visibílio
la folla.
I
nativi di Niori, gelosi, incaricarono il costo
del pane d’un centesimo, la tassa volontaria
era destinata alla costruzione d’un organo
che doveva essere superiore a quello di Valle.
Certa somma riunita, i fabbricieri comandarono
al migliore organaio della penisola l’istrumento
desiderato. Al collaudo di questo furono invitate
le sommità organistiche del momento.
E la brava gente ad ammirare con snobismo le
esecuzioni magistrali delle non meno magistrali
fughe di Bach o altro grande classico.
Ma, i virtuosi partiti, la delusione non fu
piú nascosta. Il popolino cominciò
a trovare strano il fatto di non aver inteso
l’organo imitare la banda musicale che
s’avvicina e s’allontana poi, né
la voce umana imitante perfettamente la vera,
principali attrattive dell’organo rivale.
Presentato al capo dei fabbricieri, questo m’informò
d’aver studiato canto a cento lire la
lezione e mi permise d’esercitarmi sul
meraviglioso istrumento prima di dare la prova
pubblica che doveva precedere la mia nomina
eventuale a organista della Collegiata di Niori.
Ciò fece ottimo effetto, cosí
si metteva in evidenza la particolarità
dell’istrumento e la buona volontà
del postulante. Ma, dai primi saggi, gli uditori
riempirono la chiesa e la tribuna stessa dell’organo.
Infine dovetti rassegnarmi a sonare per questi
e non per me.
Dopo l’aria del Rigoletto, con flauti,
violini e contrabbasso, un tarchiato ch’era
alla mia dritta, esclamò “finalmente
si comincia a sentire il vero organo!”,
opinione condivisa dai presenti tutti. Virtualmente
avevo guadagnato la partita: per questa brava
gente ero l’organista ideale, per l’organista,
avevo a mia disposizione l’istrumento
dei sogni.
Insistetti a fornire la prova, nella speranza
di poter studiare, ma dovetti rinunziarvi stando
che al pubblico abituale s’era aggiunto
quello dei dintorni. Talvolta questa folla applaudiva
il giovane organista picchiando con la canna
il pavimento del Tempio, oppure l’uno
o l’altro canonico saliva alla tribuna
per domandare l’esecuzione di tale o tal’altro
pezzo. Il Decano, era tra questi il piú
animato di zelo: un giorno esso toccò
colle mani la pedaliera per assicurarsi ch’essa
suonasse veramente, e poi m’ingiunse di
eseguire la Sonata Marsigliese, da lui udita
a Napoli all’occasione della venuta del
Presidente Loubet.
La vigilia della prova ufficiale, fui menato
da Monsignore infermo. Come incastrato nella
poltrona, questi era un prelato immenso dal
volto candido. Da anni nutricandosi di solo
latte, l’apatía era tale che il
cucchiaio stesso era rimpiazzato da un cannello
di caucciú. M’avevano prevenuto,
Monsignore non è punto loquace. Infatti
esso non disse nulla, si parlò e si parlò
e Monsignore, senza volgere la testa, si limitò
talvolta a chiudere gli occhi. Infine, firmai
il contratto che mi nominava organista, fissato
l’emolumento in trenta lire settimanali,
e dopo ebbe luogo la prova. L’Ave Maria
di Gounod, con voce umana applicata alla pedaliera
e accompagnata dall’arpa, imitata dallo
staccato al manuale, fece dire al capo dei fabbricieri
che la sua fretta nello scritturarmi si giustificava;
– il Maestro – conchiuse questi
– è come la mosca bianca da acchiappare
al volo.
Il servizio liturgico dell’organista limitavasi
all’accompagnamento del Prefazio alla
Messa canonica; le altre parti di questa, il
clero le cantava per conto suo durante il programma
vario, e quanto vario, dell’organista.
Talvolta dall’abside cantavasi Lectio
epistolae nel mentre che sonavo Le parlate d’amore
o Cari fiori. Questo mi ripugnava, ma ciò
era il riscatto imposto dal gusto musicale locale.
I miscredenti frequentavano la chiesa per udire
l’organo, i fedeli avevano disertato le
altre chiese; consequenza di ciò fu l’aumento
della locazione delle seggiole da cinque a dieci
centesimi, l’annunzio negl’alberghi
della messa a grand’organo e il registro
nella sagrestia per raccogliere le firme delle
celebrità di passaggio.
Che cambiamento nella mia vita!
Fanciullo, agognavo poter sonare la Domenica
alla Serenissima; giovane, temevo detto giorno
a causa dell’impiego grottesco ch’ero
obbligato a fare d’un cosí meraviglioso
istrumento.
E dire che mio padre aveva tanto desiderato
sonare un organo della sorta!
Questo ricordo mi tormentava, di là la
risoluzione di chiudermi la sera nella chiesa
per studiarvi Frescobaldi, Buxtehude e Bach,
i maestri per eccellenza.
Che ore d’intensa poesia all’organo,
su quest’ambone dominante l’ampiezza
misteriosa della grande navata, alle vacillanti
luci delle lampade.
Era come un sogno!
Come – mi dicevo – hanno costruito
per me solo quest’ammirabile istrumento?
E’ d’uopo palesare alla gente il
sacrilegio domenicale ch’essi m’impongono?
Essi sono sinceri, allora sta a me di farli
vibrare piú altamente. Ma presto disingannato,
mi segregai ancora piú nella comunione
dei classici.
Ricorderò sempre una certa sera d’inverno,
allorquando cercai di sorpassare col fortissimo
dell’istrumento il fracasso della tempesta
scatenata sul mare sottostante la chiesa.
(…)
In:
“A. D’Amalfi, Vita di Musicista”,
a cura di Antonio Porpora Anastasio; ed. Dell’Ippogrifo,
Sarno 1999.
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